Paolo uscì tardi dall’ufficio. Il sole calava sulla città, infuocata dal calore estivo. La giornata era stata pesante, tra riunioni sull’asset della società Parker e le irraggiungibili previsioni triennali imposte dall’ufficio marketing.
Come prevedere il futuro quando quel fottuto presente crolla, pensava Paolo.
A mano a mano che camminava, sentiva il caldo afoso invadere tutto il corpo. Percorse a piedi, con fatica, strade trafficate e rumorose. Decise di fermarsi un momento al Moonlight, un cocktail bar con proposte alcoliche invitanti e musica jazz per appassionati.
Appena varcate le due porte in legno massiccio con vetri scuri, scese una scala stretta e buia. In fondo alla discesa, Paolo attraversò la sala grande, tappezzata di teloni neri e manifesti anni ’40, e si diresse verso il lungo bancone in rovere scuro e ottone. Una decina di clienti, seduti intorno a tavolini sparsi, bevevano e conversavano discretamente con i loro vicini. Qualcuno, solo, scrollava il cellulare o sembrava ascoltare con interesse la musica.
Un tipo sulla quarantina, alto, magro, con una camicia sbottonata fino all’ombelico, concludeva con maestria un Manhattan, affogando la ciliegia rossa candita nell’alcol colore del tramonto.Paolo si avvicinò e appoggiò mezza chiappa su una sedia alta.
Chiese un Wild Turkey Rare Breed on the rocks. Quel Bourbon a 57 gradi d’alcol, poco torbato, raschiava la gola come un tè bollente bevuto insieme a una manciata di chiodi in acciaio. L’effetto era micidiale, e dopo due sorsi il corpo teso di Paolo si rilassò, fino a sentirsi come un marshmallow appena grigliato sul barbecue.In quell’istante, Blue Room di Chet Baker si diffuse dalle quattro enormi casse appese all’alto soffitto nero. Conosceva a memoria le parole:
We’ll have a blue room
A new room for two room
Where ev’ry day’s a holiday
Because you’re married to me
Il suono delicato, morbido, della tromba di Chet accarezzò i suoi timpani attoniti. Sentì il cervello girare come una trottola nel cranio e, dopo il terzo sorso di Bourbon, la camicia sudata gli si appiccicò alla schiena come una mano gelida sulla fronte febbrile di un bambino. Quel suono ovattato gli ricordava la sua Betty. Era la sua voce.
I suoi occhi tristi fissavano il bicchiere appannato dal ghiaccio, mentre il suono della tromba intonava la sua vulnerabilità di fronte a quell’amore perduto.
Finì d’un tratto il suo Bourbon e una fiamma alcolica gli attraversò l’esofago come una cometa in rotta verso il Sole, destinata a bruciare nel proprio bagliore.
Un Bourbon da sublimazione!
Si alzò alla fine del pezzo, pagò con una banconota spiegazzata e uscì rapidamente.
Fuori, la notte chiara e trasparente sembrava un vecchio negativo fotografico. Si accese una sigaretta, e la cenere incandescente appariva nera tra le dita scure. Il fumo uscì dalle narici, dilatate dall’alcol, e vide l’ombra seppia di Betty girargli attorno. Non riusciva a dimenticarla.