Jean-Jacques Rousseau a Torino (1728-1729): il battesimo di un’anima inquieta
Qui, registrato con il nome italianizzato di Rosso, Gio Giacomo di Geneva, calvinista, Rousseau abiurò pubblicamente il calvinismo il 23 aprile 1728.L’esperienza torinese rappresentò per il giovane un incontro con un mondo nuovo, vasto e sconosciuto. Appena liberato dai rigori ginevrini, Rousseau si sentì avvolto dall’energia di una “grande città ricca di risorse”, nella quale si immerse con curiosità febbrile. Racconta di aver vagato per le strade di via Po, di aver assistito alle processioni religiose e ai cambi della guardia, rapito dai suoni, dai colori e dall’atmosfera popolare e mondana. Trovò rifugio in una modesta stanza condivisa con altri domestici, dormendo per un soldo a notte nella casa di una donna di soldato.Nonostante la miseria, Rousseau conservò una gioia ingenua di vivere: ricordava con delizia le sue cene frugali di pere, giuncata, formaggio e vino del Monferrato, pasti semplici che definì «tra i più buoni della mia vita». Tuttavia, insieme alla fame materiale, in lui ardeva una fame di esperienze e di desiderio.
Negli stessi mesi visse i primi turbamenti amorosi: dapprima un innocente infatuamento per una giovane catecumena conosciuta all’Ospizio, sorvegliata con rigore da una “vecchia carceriera”; poi un flirt più audace con Madame Basile, la graziosa merciaia presso cui trovò impiego. L’episodio — due baci rubati alla mano della donna — gli costò il licenziamento, ma rimase per lui «uno dei momenti più dolci dell’esistenza».Dopo brevi esperienze lavorative come lacchè presso la contessa di Vercellis e poi in casa del conte Ottavio Solaro di Govone, Rousseau continuò a collezionare delusioni sentimentali e goffaggini. Il suo cuore si infiammò per la marchesina di Breglio, bionda e gentile, alla quale rovesciò per l’emozione un bicchiere d’acqua sul vestito: episodio che pose fine alla sua breve carriera di servitore. Nonostante le umiliazioni, questi incontri raffinarono la sua sensibilità e alimentarono la sua futura riflessione sulla fragilità dell’uomo e l’ipocrisia sociale.Tra le figure che segnarono quella tappa decisiva della sua vita, l’abate Gaime, savoiardo colto e di profonda rettitudine, rappresentò per lui una sorta di guida morale. Fu proprio grazie a quest’uomo discreto e saggio che Rousseau apprese il valore della moderazione, della virtù quotidiana e della serenità interiore. L’abate gli insegnò che la vera grandezza non si misura nella gloria, ma nella capacità di restare fedeli alla propria coscienza. In lui Rousseau trovò un modello di equilibrio, una voce capace di placare le sue tempeste interiori, lasciandogli in eredità quel “germe di virtù e di religione” che non avrebbe più abbandonato.
Accanto a questa guida spirituale, l’incontro con l’abate de Gouvon, figlio del conte di Gouvon, aprì per Rousseau le porte della cultura. Presso di lui il giovane ginevrino perfezionò l’italiano, scoprì i piaceri della lettura e affinò il gusto letterario che, anni più tardi, avrebbe nutrito le sue opere. Torino divenne così il laboratorio della sua sensibilità nascente: un luogo dove l’apprendista servitore imparò ad ascoltare, osservare e riflettere sul cuore umano.
La semplicità felice del vino e del pane
Tra gli incontri e le scoperte che segnarono la giovinezza di Rousseau a Torino, ve n’è uno silenzioso ma rivelatore: quello con la semplicità della tavola piemontese. Nelle sue Confessioni, il filosofo evoca con tenerezza la sua frugale felicità fatta di “Mes poires, ma giuncà, mon fromage, mes grisses, et quelques verres d’un gros vin de Montferrat à couper par tranches, me rendaient le plus heureux des gourmands.”
In queste parole si respira una poetica della misura e del piacere autentico, dove il vino e il cibo non sono strumenti di lusso, ma compagni di un equilibrio ritrovato.
Il giovane Rousseau, povero ma libero, scopre che il gusto della vita non nasce dall’abbondanza, bensì dall’armonia dei sensi con la natura e con la propria coscienza. Il vino del Monferrato — rustico, tagliente e sincero — diventa per lui simbolo di una gioia semplice, un’estasi terrena che unisce corpo e spirito, e che anticipa la sua futura esaltazione della natura come rifugio morale e fonte di verità.
Questa esperienza sensoriale, vissuta con innocente gratitudine, si inserisce tra le esperienze positive del soggiorno torinese: un nutrimento del corpo che prelude al nutrimento dell’anima. In un mondo già proteso verso la vanità e l’ambizione, Rousseau sceglie inconsapevolmente la via della sobrietà felice — quella di chi sa gustare una pera matura e un bicchiere di vino rosso come fossero il segreto stesso della saggezza…

foto Humbert
Come il buon Rousseau, v’ho voglia di offrire una degustazione d’un Monferrato dell’Azienda Agricola Nuova Cappelletta, nel feudo di Vignale Monferrato (AL)
Barbera del Monferrato DOC senza aggiunta di solfiti, annata 2023 –(da agricoltura biologica e biodinamica)
Vitigno: Barbera
Alcool: 13,5% vol
Colore: rosso rubino profondo e scuro
Naso: si dispiega un profumo intenso di piccoli frutti rossi, ciliege mature e prugne, accompagnati da sentori floreali di peonia e da leggere note vegetali di fieno.
La sua intensità aromatica è vigorosa, e la qualità squisita e fine.
Al palato: il vino si presenta fresco, con un’acidità ben armonizzata e un calore avvolgente. Di ottima struttura, morbido, e con tannini gentili e misurati, per Bacco, una bella espressione del vitigno e del Terroir.
Non si tratta di un Monferrato “da tagliare al coltello”, come scriveva Rousseau, bensì di un nettare di eccellente bevibilità, carnoso, fresco e gioviale. Una Barbera del Monferrato che, a mio modesto avviso (e non senza turbare qualche convinto estimatore), è la terra ove questo vitigno trova massima espressione.
La Barbera del Monferrato si mostra franca e immediata, con aromi fruttati assai gentili e un’armonia perfetta tra la vivace acidità che contraddistingue il vitigno e la sua soavità. Pur non offrendo complessità smisurata, regala una piacevole avvolgenza sul palato: insomma una poetica della misura.
Musica da abbinare: Jean-Jacques Rousseau: Daphnis et Chloé






