Messina, aprile 1475, Quartiere di San Luca nella Contrada dei sicofanti.
Il sole primaverile splendeva, l’odore acre del mare invadeva la città e un leggero vento fresco del Nord accarezzava il suo viso. Antonello esaminava il cielo azzurro, la chiarezza e l’intensità del colore. Il suo sguardo si posò in lontananza sul porto dove due navi veneziane stanziavano, in attesa di ripartire per la Siria. Sapeva che fra qualche settimana avrebbe raggiunto la Serenissima. La sua pittura piaceva a personaggi influenti, come il patrizio Pietro Bono, che l’aveva introdotto nei circoli importanti di quella città.
Dal davanzale della finestra prese un rametto di rosmarino e lo strofinò tra il pollice e l’indice. Avvicinò la sua mano alle narici e l’odore intenso e fresco lo rilassò. Ritornò nello studio e si sedette di fronte al suo cavalletto. Prese un pennello a punta tonda, l’intinse in una ciotola con del nero di fumo e del latte e, con grande precisione, l’applicò sulla piccola tavola. Lo strato di colla era asciutto così come l ’imprimitura a base di olio di lino ed emulsione di tuorlo d’uovo, che aveva applicato con accuratezza tre giorni prima. Questa tecnica l’aveva inventata lui, esaminando i quadri dei pittori fiamminghi durante l’apprendistato a Napoli, con il suo caro maestro Colantonio.
Antonello si concentrò, ed attingendo di nuovo il pennello nel nero di fumo, continuò l’ovale perfetto del viso della Madonna. Voleva dipingerla con i tratti fisici delle donne siciliane. Fino a quel momento aveva sempre ritratto Madonne bionde, con la pelle chiara, umili e materne. Adesso il committente, il Vescovo Di Giovanni, gli aveva chiesto di rendere viva la Devotio moderna nel quadro della Madonna. Lui si sentiva come San Luca, il suo compito gli appariva complesso e innovativo. Sperava di consultare a breve il frate Philippo nel convento di Santa Maria del Gesù, per chiarire alcuni capitoli del Vangelo di San Luca e cogliere il senso profondo del Magnificat.
Col pennellino Antonello tratteggiò una forma triangolare perfetta. Arrotondò la parte superiore e coprì la base con due parallelepipedi, uno sottile e lungo coperto in parte da uno più piccolo. La costruzione del disegno si limitava a qualche forma geometrica semplice e poche linee oblique.
Aveva già abbozzato gli occhi con le sopracciglia delicate. Lo sguardo di tre quarti con le palpebre leggermente abbassate si dirigeva a destra, verso la luce. Il naso, perfettamente lineare, seguiva una linea sottile che egli aveva già inserita sulla parte alta del maphorion. Prese del nero di fumo ed eseguì la bocca della Madonna con la più grande delicatezza. Aggiunse vicino al naso una piccola grinza per evidenziare la contrazione muscolare. Poi asciugò il pennello e lo posò su un vecchio telo di lino coperto di macchie colorate e prese un delicato bicchiere di vetro di Murano, appoggiato sul davanzale interno della finestra. Si versò da una caraffa d’argento cesellata un po’ dl vino, che aveva ricevuto come compenso per l’icona fatta per il Monastero di Santa Maria “extra moenia”. Sorrideva perché aveva preferito sei salme di vino “mustalis” al posto di un’oncia d’oro. Apprezzava questo vino verum di prima spremitura. Aggiunse dell’acqua da una brocca di terra cotta, e con un cucchiaio di miele dorato al profumo di zagara addolcì la bevanda. Il colore rosso rubino scintillava nel bicchiere. Chiuse gli occhi e sentì l’odore forte dell’uva e della frutta appena raccolta. Le conosceva bene queste vigne piantate intorno al monastero dei frati minori. Erano generose, con dei grappoli lunghi e ricchi, e dei bei chicchi nero-bluastri. Il luogo rimaneva fresco e ombreggiato tutto l’anno, perché lì scorreva il torrente San Michele.
Riaprì gli occhi e guardò intorni a lui. Era in una stanza luminosa al secondo piano di casa sua, che si affacciava sullo stretto. Il pavimento era ricoperto di coloratissime mattonelle maiolicate di Caltagirone. Polvere di pigmenti colorati, piccole bottiglie di vetro contenenti lacche e vernici, ciotoline e pennelli coprivano un tavolo grande.
Avvicinò il bicchiere alla sua bocca e sentì il vino entrare in bocca. Che dolcezza, che aromi! Poi sentì un po’ di rugosità in bocca e gli veniva da salivare. Deglutì, e un flusso caldo e potente si diffuse in tutto il corpo. Si ricordò quando da piccolo mangiava le prime fave fresche, che lasciavano in bocca quella sensazione strana. Da qualche tempo la sua salute si stava deteriorando, si sentiva spesso stanco e affannato e questa deliziosa bevanda lo rigenerava.
Ripensò al Magnificat: “Anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo…”, questa frase l’avrebbe scritta sulla pagina dipinta, che la Madonna stava per leggere quando l’angelo Gabriele le avrebbe annunziato l’imminente nascita di Gesù Cristo. Erano le parole formulate da Maria ad Elisabetta, ambedue in stato di gravidanza, ed Antonello, ogni sera, le ripeteva per sentirsi in comunione con Dio, e raggiungere uno stato di salvezza necessaria alla sua creatività.
Riportò il bicchiere in bocca e bevve il contenuto. Lo posò sul davanzale e si versò del vino, aggiungendo di nuovo del miele e dell’acqua. Il sole tramontava e alla luce calante, il colore del vino, attraverso il vetro sottile, prese riflessi cinabro scuro. Gli venne in mente quel colore, simile a quello del mantello di San Giovanni in una crocifissione appena dipinta. Si avvicinò alla finestra aperta e respirò l’aria primaverile profumata di fiori di ginestra e di finocchio selvatico. Delle rondini gioiose roteavano davanti ai suoi occhi. Bevve d’un sorso il vino rimanente. Si sentiva finalmente rinato e brioso. Fecce qualche passo indietro e si sedette sul piccolo sgabellino vicino al cavalletto. Guardò il quadro dell’Annunziata appena iniziato, e nel profondo della sua anima capì che avrebbe raggiunto la vittoria sulla pittura, grazie alla sua tecnicità, alla gestualità sconcertante della vergine, che egli aveva immaginato nel grembo della sua fantasia, e grazie alla sua innegabile ingegnosità. Aspettava da tempo questo momento di gloria per sé, per quelli che amava e per la sua terra colma di ricchezza, come questo nobile nettare decantato da Plinio e da Strabone. Dal palmo destro accarezzò la superficie liscia della tavola e a voce bassa scandì le ultime parole del Magnificat:” Gloria Patri, et al Filio et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc et semper, et in sæcula sæculorum. Amen.”