C’era una volta… Il Tocai Friulano:
-Tu chi sei?
-Io?
Io sono il dimenticato. Quello che è stato abbandonato dalla sua terra, dalla sua gente.
Sono il selvaggio. Anzi, peggio: sono il “selvaggiaccio”.
La gente del luogo forse mi disprezzava e mi ha inventato un nome con una connotazione dispregiativa.
Forse i miei compagni erano più nobili di me, o almeno così credevano loro.
Ne ho avuto tanti di nomi: anche questo dimostra la mia identità incerta.
Nel mio luogo di origine, la gente sussurrava: la sauvignonasse o le sauvignon vert.
Crescevo con gli altri compagni, quelli amati: le Sémillon, il preferito, il seducente; le Sauvignon Blanc, meno selvaggio – e non è nemmeno un mio parente. Io con lui non c’entro nulla.
Poi c’era la profumatissima Muscadelle, sorridente e dolce di cuore.
Il mio succo non era poi così male. Abbastanza corposo, certo, ma sicuramente meno profumato del presuntuoso Sauvignon Blanc.
Ero piantato su questa terra bianca di calcare, sabbia, argilla, cosparsa di ciottoli candidi.
Il clima oceanico mi rinfrescava d’estate, e gli inverni non erano troppo freddi.
L’odore salmastro del mare si sentiva per chilometri, fino al paesino di Réole.
Il piccolo Ciron e il grande fiume Garonna erano le mie fonti di freschezza e umidità.
Tanti uccelli passavano sopra le mie foglie rigogliose: la bouscarle de Cetti, le martin-pêcheur, la fauvette des buissons, l’ibis falcinelle, l’aigrette, l’héron garde-bœufs, il bihoreau gris, la tadorne de Belon, l’héron cendré e la cigogne.
Quello che amavo di più nella mia vita di pianta era il tempo prima della vendemmia.
Loro, i contadini, lo chiamavano settembre, quel momento.
Sì, certo, raccoglievano i miei meravigliosi frutti, il dono che facevo loro ogni anno, ma accadeva qualcosa di magico.
Dalla Garonna e dal Ciron si levava e si diffondeva una leggera e fitta nebbia: fresca, salina, umida.
Mi sentivo immerso in un mondo addormentato, quasi intorpidito e inquietante.
Poi, quando il sole raggiungeva il culmine del suo cammino a sud, come per incanto il cielo si rivelava meraviglioso, di un azzurro intenso.
Questo spettacolo mi colmava di gioia, e il calore del sole asciugava le mie foglie verde ramato.
Alcuni chicchi d’uva si trasformavano: meno belli, forse, ma così dolci che né miele né ambrosia potevano competere.
Poi un giorno successe qualcosa di strano.
Un umano, un po’ villano, ci depose – me e qualche mio fratello – in una grande cesta.
Attorcigliò le nostre radici in panni umidi. Viaggiavamo per monts et par vaux.
Attraversammo tanti paesaggi, dialetti e profumi diversi, finché arrivammo in un luogo così strano, così lontano dal nostro.
Eravamo terrorizzati.
Il suolo, il clima, l’aria, la gente, gli animali… tutto era incomprensibile per noi.
Ci colpì soprattutto il vento invernale, la Bora, che gelava i nostri tralci denudati.
All’inizio, la nuova terra era più dura da penetrare.
Aveva un gusto diverso, il nutrimento era cambiato.
Forse era più salato.
Dalle nostre foglie vedevamo uccelli diversi. Altri animali mangiavano i nostri grappoli.
Le erbe selvatiche che ci circondavano avevano profumi nuovi.
Quanto ci mancava la nostra terra bassa e bianca.
Ma siamo sopravvissuti.
Noi, con il nostro succo, dissetavamo e nutrivamo la gente più umile.
Loro non capivano quanto potevamo dare – proprio come non lo capiva il paese da cui venivamo.
Bastava un po’ più d’amore, un po’ più di attenzione, per scoprire la nostra forza, le nostre qualità.
Poi, dopo tante lune sopra le nostre teste legnose, qualche vignaiolo cominciò a curarci di più.
Ci diede la possibilità di mostrare la nostra vera anima, da grande vitigno, degno di essere paragonato ai nostri antichi compagni della terra bianca.
Noi siamo stati impiantati su alcuni terreni talmente ripidi da far girare la testa, su suoli morbidi ma anche in certi strati anche duri.
Ci siamo innamorati di questo posto, così lontano dalle nostre radici.
Di questa gente dalle usanze strane.
Di questo luogo verde, coperto di castagni, roveri, robinie e ciliegi selvatici.
E di nuovo, sopra le nostre teste legnose, passavano uccelli: il picchio verde, il merlo, la capinera, la cinciallegra, e molti altri.
Ci siamo finalmente espressi come mai prima d’ora.
Con tutta la nostra delicata forza, il nostro fervore.
Siamo rimasti selvaggi, sì, ma abbiamo finalmente addomesticato questo luogo e questa gente.
Mi hanno chiamato Tocai Friulano.
Ma io sono la Sauvignonasse delle terre bianche e ciottolose, delle grandi maree che risalgono fino a 150 chilometri nell’entroterra.
Ero il vitigno della terra dei grandi bianchi liquorosi francesi e del filosofo rinascimentale Michel de Montaigne… e mi hanno dimenticato.
Eppure ho ancora il mio orgoglio.
Se i miei atteggiamenti selvatici, mal compresi, mi hanno esposto alla gogna…
…ho comunque conquistato il mondo.
Il mio succo profuma di pompelmo, albicocca, mandorle, fiori selvatici freschi o secchi, fieno, geranio, pesca e mele verdi, timo, miele, crema.
Sono, secondo il terroir e la mano del vignaiolo, elegante e anche raffinato (e a questo punto mi viene da ridere).
Sono strutturato ed equilibrato. Insomma, l’opposto di quello che sembro.
Su questa nuova terra ho incontrato la Malvasia Istriana.
Ma il suo accento greco, la sua complessità e la sua finezza… mi imbarazzano assai.
Mi manca una cosa, sola, della mia terra bianca:
La mia Muscadelle.
Così tenera, dolce e discreta.
I suoi rami folti sfioravano le mie foglie, delicatamente.
Come dimenticare il mio primo amore?
——————————————————————————————————————————————————————————
(Vorrei ringraziare la signora Gloria Fontanini, proprietaria dell’alloggio La Casetta in Piazzetta a Cormons, per la sua gentilezza, disponibilità e la sua incredibile ospitalità. Se cercate un alloggio nel pieno centro di Cormons, non esitate a contattarla.
Ringrazio anche tutte le persone che ho incontrato a Cormons e dintorni per la loro accoglienza e gentilezza.)